Franco Pedrina

Guglielmo Gigli

E’ possibile azzardare precise definizioni della pittura di Pedrina? Nette affermazioni sulle dimensioni del lavoro di questo veneto, che ha vissuto intensamente il clima culturale romano e milanese, potrebbero essere giustificate da probanti testimonianze? Ci sono, insomma, sufficienti ragioni per dare esatte misura all’opera di Pedrina, usufruendo anche di superati momenti espressivi?
Una risposta affermativa sia pure suffragata da una attenta esegesi delle motivazioni del linguaggio dell’artista finirebbe per lasciare insoluti alcuni problemi di fondo che costituiscono, certamente, la sostanza più vitale di quella ricerca di Pedrina sulle parole più idonee a comunicare certe intenzioni che è sempre, per questo pittore, il traguardo più vicino da raggiungere. E’ agevole, infatti, ricostruire, sulla scorta delle indicazioni fornite da un attenta verifica delle opere degli ultimi anni, la presenza, in queste, di due sollecitazioni parallele: una, implicante la volontà di riproporre in termini di “riscoperta” il problema di un più vitale rapporto dell’uomo con la natura attraverso la possibilità di intercambiabilità o immedesimazione delle immagini; l’altra, rispondente a un costante atteggiamento dell’artista nei confronti di un affinamento del discorso che dia quiete a quella intima insoddisfazione che è uno degli aspetti più affascinanti della personalità di Pedrina.
E quanta parte abbia questa insoddisfazione nell’operare è constatabile facilmente ove ci si voglia impegnare in una lettura accurata ed approfondente le molte componenti del linguaggio dell’artista; un linguaggio, occorre dirlo, che seppur disponibile, nelle sue linee generali, a una facile ricezione, presenta sempre un meno aperto spazio nel quale è possibile entrare solamente dopo una totale presa di coscienza dell’uomo Pedrina, cioè di una natura nella quale si coagulano precisi sentimenti e altrettanto perentori risentimenti, e nella quale certezze e dubbi, aspirazioni e cedimenti, si giocano ogni momento della giornaliera esperienza. Non si tratterà, quindi, volendo arrivare alla scoperta del massimo spazio concesso da Pedrina, di ricercare esclusivamente a livello intellettualistico le ragioni di un discorso che, come si è detto, è spesso complesso, ma di ricostruire il più possibile il “mondo” come è sentito (o sognato) dall’artista; operazione, questa, che potrà fornire la chiave per riconoscere le risposte ai molti “perché” provocati da una narrazione formale e coloristica tra le più stimolanti. E sottolineano l’esistenza di molti interrogativi ai quali si presta l’opera di Pedrina si arriverà necessariamente ad esaminare quantità e qualità delle immagini inserite nel racconto. Parlare di “qualità” delle immagini significa riconoscere al racconto stesso la presenza di plurimi elementi narrativi condensati in un’unica situazione ambientale ed atmosferica, ed impossibilitato ciascuno a vivere al di fuori del contestuale insieme degli altri. Immagini apparentemente astratte e libere, pertanto, ritrovano la loro dimensione reale elaborandosi e componendosi nelle perfette cadenze di un discorso che traduce illuminazioni emotive e momenti assolutamente irripetibili nella loro interezza, anche se da considerarsi pagine successive di quel racconto unitario che Pedrina ha aperto già molti anni fa allorché la rottura con gli schemi del suo passato divenne scelta definitiva.
La “qualità” delle immagini, d’altra parte, non è la mera conseguenza di una sapienza tecnica ormai al di là di ogni possibile appunto, ma di quella solida fede che Pedrina ha in ciò che intuisce e, quindi, fa. La creazione delle immagini, cioè è operazione non solamente della ragione ma anche dell’anima giunta a meditare su alcuni valori indispensabili per la riconquista di una realtà forse più ipotizzata che possibile. E per approdare a questa realtà è indispensabile per Pedrina anche un certo tipo di colore.
Il colore di Pedrina: ce lo sentiamo dentro un pò alla volta; dapprima, forse, “amaro” per certe apparentemente assurde combinazioni tonali, poi “struggente” come qualche cosa che finisce col far parte di noi violentando la nostra libertà di amare o di respingere. Si scoprono, così, alla fine, quando la decantazione della materia è compiuta e la realtà prima “decomposta” si è “ricomposta”, la nobiltà di certi assunti cromatici, la raffinatezza delle soluzioni forma-spazio e l’eleganza dello svolgimento segnino del racconto del racconto che, partendo dall’improvviso stimolo di una suggestione, si dilata verso i confini della tela, fuggendo idealmente verso uno spazio più vasto, al di là forse, dell’occhio dell’artista ma sempre, certamente, al di qua del suo sentimento e già ai difficili traguardi della poesia.
Come “netto” è il rapporto tra Pedrina e le “situazioni” dei contenuti delle sue opere, altrettanto senza zone d’ombra è l’atteggiamento dell’artista nei riguardi del suo colore, conclusione precisa di un “sentire la materia” che rappresenta il punto d’appoggio più sicuro per quel meraviglioso viaggio dentro alla natura che è un quadro di Pedrina. Sentire la materia vuol dire, per l’artista, adoperarne le possibilità evocatrici nella misura in cui queste trovano rispondenza in una volontà narrativa che tende a rendere il colore direttamente responsabile di precise affermazioni segniche nelle quali le immagini si formano solamente attraverso enunciazioni cromatiche “volute” perché “sentite” in ogni loro minima partecipazione all’opera.
Documenti preziosi di questo possesso completo del colore da parte di Pedrina sono quegli episodi matrici, a volte emarginanti nell’opera stessa, nei quali certi apparenti casualità sono invece “costruiti” particolari di un linguaggio che intende avvalersi di ogni parola che sia capace di rendere più attendibile il racconto. Di “racconto”, infatti, occorre sempre parlare nei riguardi di questa natura rivisitata da Pedrina non con mente di visionario ma con l’anima di che sa ancora stupirsi e ritrovare legami dimenticati e suggestioni primordiali. Così, in questi frammenti di mondo naturale che sono le opere di Pedrina c’è in mezzo, soprattutto, la coscienza dell’artista; ed è coscienza che sa entrare al fondo di ogni cosa per ricercarne ogni più entusiasmante proiezione all’esterno attraverso schemi inusitati e spesso trascendenti la nostra stessa capacità di recepirli interamente.

(presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Meneghini, Mestre, Dicembre 1973)

 

 

 


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